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Il romanzo di formazione e la sclerosi della società italiana

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In Italia per molto tempo è mancato il genere letterario del romanzo. Il peso certamente  del lirismo endemico petrarchesco  o l’inclinazione tutta nazionale  al canto, all’Opera e alle trame dilatate del melodramma,  hanno inibito  per lungo tempo quella che Hegel chiamava la “prosa del mondo”. Abbiamo saltato così tutto il momento fondativo del romanzo, quello del  Settecento.

Per lungo tempo, almeno fino ai “Promessi sposi” (1827),  abbiamo avuto il libretto (d’opera) a luogo del libro, il romanzo in ottavo.  Abbiamo preferito cantarla la vita piuttosto che scriverla. Altrove i  deliziosi Fielding, Swift,  Lesage, Laclos, da noi gli abati Metastasio, Casti, Bettinelli, Parini e il povero diavolo dell’abate Pietro Chiari, tra i pochi che puntò insieme ad Antonio Piazza (perfetti sconosciuti, lo so) e prima di Manzoni  al romanzo, guadagnandosi anche una discreta fortuna, segno che c’era la domanda e non l’offerta di romanzi, e  tanto da decidere di abbandonare la più lucrosa attività di commediografo sulla scena teatrale veneziana, per giunta in aperto antagonismo con  quel genio di Goldoni.  (Quando lavoravo a Brescia cercai la tomba di Chiari nella chiesa dei SS. Nazaro e Celso dove mi dicevano fosse sepolto, ma non la trovai, in compenso vi ammirai il delizioso polittico  Averoldi  di Tiziano).

Il romanzo del Settecento non è solo di  genere avventuroso  (come può esserlo il “Gil Blas” di Lesage tributario del picaresco spagnolo) ma se lo è si manifesta  soprattutto  come  il resoconto di un’avventura principalmente biografica: la storia dell’affermazione di un Io in lotta con l’ambiente sociale ostile, l’ascesa di un individuo dotato di talenti ma avversato da una stratificazione sociale avversa che privilegia la nascita e le rendite di posizione. Grosso modo lo schema è quello della fenomenologia (sociale) dello spirito di un soggetto dotato, perlopiù  giovane, che attraverso   Fortunes and Misfortunes  si afferma o perisce, e spesso si afferma “e” perisce.

In Italia è mancato il romanzo (anche Leopardi , il più grande lirico italiano, si lamentava dell’assenza del genere) ed è mancato soprattutto il “romanzo di formazione” (Bildungsroman, lo chiamano i tedeschi, che tignosi come sono, enucleano anche un “Entwicklungsroman”, un  Erziehungsroman”,  un Künstlerroman”,  vedi questa bella scheda) . E questo per la ragione che,  se il romanzo è lo specchio di una società, come avverte Stendhal nelle prime pagine de “Il rosso e il  nero” (ambiente narrativo straordinario dove il suo giovane Julien Sorel tenta la sua peculiare scalata sociale),  la nostra società è stata la più ostile, molto di più di quella francese, tedesca o inglese, sin dai tempi del nepotismo ecclesiastico romano, all’ascesa dell’individuo senza risorse sociali ma dotato di grandi talenti. Da noi i giochi sembrano fatti con la sola nascita.

Popper ha scritto un libro intitolato “La società aperta e i suoi nemici”; noi potremmo  scrivere “La società chiusa e i suoi amici”.  Occorrerà partire da questo assunto di base: non c’è il romanzo di formazione nella nostra  letteratura, perché manca il “romanzo di formazione” nella società. Altrove la selezione delle élite avviene con percorsi di guerra tipo “Ufficiale e gentiluomo”, o,  restando sul terreno letterario, non c’è nella nostra letteratura qualcosa  di equivalente ai “Turbamenti del giovane Törless ” o alla “Linea d’ombra” di Conrad, o allo stesso “Il giovane Holden” ove,  che l’elemento di prova e di sfida sia l’esclusivo  e durissimo college/collegio militare o la marineria inglese, il tema è quello della prova di forza, dell’esame da superare rispetto agli ostacoli dell’ambiente per ascendere, per affermarsi o semplicemente per dare forma all’Io.

Non che altrove, nel frattempo, non si sia assistito alla sclerosi delle classi dirigenti, quando è facile  constatare  che le “dinastie” familiari hanno attecchito perfino  negli USA, segno allarmante di cristallizzazione della società nel Paese dell’american dream e del discorso kennedyano  sulle frontiere; ma in Italia, da quando si è rotto l’ascensore sociale (dagli  anni ’60 sicuramente), le ascese,  le carriere  avvengono sempre più all’interno dei soliti giri (nella borghesia romana o milanese per intenderci) o per indicazione di una curia, degli apparati di partito,  o attraverso la vecchia e classica selezione classista e familista all’ombra del “vecchio genitor”.

La nostra società è molto cristallizzata. Rimirando estasiato la faccia pulita, l’aria di figlia di papà di una nostra politica  (verso cui ha attirato la mia attenzione  un’amica in rete) ho pensato a chissà quando avremo la figlia o il figlio di un panettiere o di un imbianchino che studiando di giorno e di notte, come Martin Eden, o semplicemente come accadeva in passato, partendo dai Martinitt, ascenda con le sole proprie forze fino alle cime abissali dell’élite,  favorito in ciò da una società aperta e competitiva, felice  e festante di fare da ala all’ascesa sociale,  al “percorso netto” del  disgraziato  figlio di nessuno.


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