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Verso una sospensione biennale di Schengen come ultimatum alla Grecia?

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Le “cattive intenzioni” del Consiglio dell’Unione europea

Una nota della presidenza del Consiglio dell’Unione europea, tuttora inaccessibile dal portale dell’istituzione pur essendo stata fatta trapelare qualche giorno fa da statewatch, diretta alla formazione Giustizia e Affari interni del COREPER (l’organismo composto da  rappresentanti paesi europei, adibito alla preparazione dei lavori del Consiglio) ha suggerito l’intenzione dei vertici delle istituzioni comunitarie di insistere nel percorso iniziato qualche mese fa con un’apertura verso la sospensione degli accordi di Schengen, di rafforzamento dei confini non solo esterni ma anche interni all’Unione. Quello che colpisce della nota non sono tanto le previsioni elencate ai primi tre punti –dove si parla della necessità di implementare la comunicazione tra gli stati dell’area Schengen, di adottare nuove misure per la prevenzione dell’ingresso clandestino dalle frontiere esterne dell’Unione e di utilizzare database condivisi con più assiduità– quanto la prospettiva, espressamente enunciata al quarto punto, di procrastinare la sospensione degli accordi di Schengen oltre i  sei mesi stabiliti il 20 novembre dai ministri dell’interno e della giustizia dei paesi europei riunitisi a Bruxelles dopo gli attentati di Parigi. Con toni forse intenzionalmente drastici, il documento fa riferimento a una situazione in cui le gravi lacune degli stati europei “di frontiera” nella gestione dei flussi migratori hanno assunto una portata drastica: secondo quanto riportato da FRONTEX, il numero di migranti irregolari da gennaio a ottobre è aumentato del 431% rispetto all’anno precedente. E in buona misura questo avviene grazie la facilità di movimento attraverso i cosiddetti green land borders, i territori adiacenti i punti di ingresso nell’Unione. Sulla base di queste considerazioni la presidenza del Consiglio suggerisce che il COREPER inviti la Commissione ad attivare la procedura che porterebbe a una Raccomandazione del Consiglio sulla base della quale si potrebbero reintrodurre controlli frontalieri per un periodo fino a due anni.

La base giuridica

Facciamo un passo indietro. Il trattato del 1985, come integrato nel diritto europeo mediante un protocollo al trattato di Amsterdam (1997), attribuisce proprio al Consiglio un ruolo decisionale particolarmente rilevante nell’ambito della cooperazione Schengen: inizialmente questo avveniva sulla base delle norme adottate dagli stati dell’area Schengen (fatte proprie dal diritto comunitario con le decisioni 1999/435/CE e 1999/436/CE del 1999) ma, con l’arricchimento giuridico dell’Unione che è seguito, a queste si è sostituita una vera e propria “legislazione di Schengen” adottata dall’Unione europea nell’esercizio delle proprie competenze. In particolare (e qui si torna alla base giuridica che legittima la prospettiva avanzata dalla presidenza del Consiglio dell’Unione) la materia è oggi regolata dal cosiddetto Codice Frontiere Schengen (CFS), Regolamento più volte emendato che ha espressamente lo scopo di operare “una rifusione dell’acquis esistente relativo ai controlli di frontiera sulle persone” e di “consolidare e sviluppare la componente legislativa della politica di gestione integrata delle frontiere, precisando le norme che disciplinano l’attraversamento delle frontiere esterne”.

Secondo quanto previsto dal CFS, dunque, esistono due tipologie di sospensione degli accordi. Una è quella breve, dalla durata massima di sei mesi e azionabile “in caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna di uno Stato membro”: questa ipotesi di sospensione, regolata dall’articolo 23 del regolamento sopracitato, è stata più volte sfruttata dagli stati europei, non solo a seguito di minacce terroristiche ma anche in altre occasioni che necessitavano di un maggiore controllo sugli ingressi nel territorio nazionale (nel caso specifico dell’Italia, durante i G8 di Genova e dell’Aquila).

Con i fatti della “primavera araba” –e, nello specifico, l’assurda querelle tra Italia e Francia sui migranti fermi a Ventimiglia– si è approvato nel 2013 un emendamento al CFS che ha introdotto una seconda, lunga, modalità di sospensione all’operatività degli accordi di Schengen. Il fine è quello di ammettere un ripristino del controllo di frontiera che, pur temporaneo, potesse essere più duraturo (due anni) ed efficace. Questa ipotesi di sospensione è stata regolata modificando nel dettaglio gli articoli 23 e seguenti del Regolamento (CE) n.562/2006, predisponendo un’apposita procedura che, come anticipato, passa necessariamente per l’iniziativa della Commissione e per la raccomandazione ad opera del Consiglio nei confronti degli stati membri, ai quali è “consigliato” il ripristino delle frontiere interne.

Tornando al nostro caso, l’utilizzo da parte della presidenza lussemburghese della formula “serious deficiencies” non sembra lasciare spazio a margini di interpretazione, siccome l’articolo 26, nel limitare la sospensione biennale degli accordi, la subordina proprio all’esistenza di serious deficiencies relating to external border control.

Una minaccia alla Grecia?

Migranti in attesa di poter accedere al campo profughi di Moria a Mitielene, sull'isola di Lesbo, 21 ottobre 2015. (Spencer Platt/Getty Images)

Secondo quanto riportato dal Financial Times e da alcune altre testate, quello fatto dalle istituzioni europee costituirebbe un primo passo verso una vero e proprio ultimatum alla Grecia, che potrebbe essere esclusa dall’area proprio grazie alla possibilità, per quanto estrema, che gli Stati avrebbero di reintrodurre controlli di frontiera nei confronti di un altro stato membro. Una minaccia che, se da un lato si giustificherebbe per un atteggiamento della Grecia non proprio diligente nella gestione dei flussi migratori (si veda il rifiuto del governo ellenico di accettare il supporto di FRONTEX), sembra però mancare di una reale base giuridica: come è stato giustamente obiettato, un incremento, per quanto incontrollato, di rifugiati (non di “semplici” immigrati irregolari) non rientra tra quelle “carenze gravi e persistenti” che legittimerebbero, ex art.26, il prolungamento biennale della sospensione degli accordi.

Anzi, è proprio il Regolamento (CE) n.562/2006 a escludere, dal novero dei soggetti nei cui confronti i controlli possono essere gravemente deficitari, proprio i rifugiati: ai sensi dell’articolo 3, il “regolamento si applica a chiunque attraversi le frontiere interne o esterne di uno Stato membro, senza pregiudizio […] dei diritti dei rifugiati e di coloro che richiedono protezione internazionale”.

Alla luce di quanto affermato, e al di là di facili allegorie (a poco serve parlare di “bracci di ferro”, “ricatto”, “altra Grexit”) parrebbe piuttosto difficile ritenere l’esclusione della Grecia da Schengen, mascherata dalla reintroduzione biennale dei confini di questa con gli altri stati europei, un’operazione legale; e se anche fosse, ci si chiede se sia saggio “spostare” il controllo di frontiera dal Mar Egeo a confini più interni dell’Unione, viste anche le esperienze fallimentari di Ungheria e Slovenia. Piuttosto, ma qui si apre un nuovo e complicato capitolo, le istituzioni europee dovrebbero convogliare ancora maggiori sforzi e risorse (a partire da FRONTEX, potenziata e più efficace di quanto lo è ora) sul mare che fu di Ulisse e Agamennone e che ora pullula di freddi corpi.


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